mercoledì 14 luglio 2010

2 agosto

Sabato 2 agosto si verificò uno degli atti terroristici più gravi avvenuti in Italia: la strage di Bologna . Nella sala d’aspetto della stazione alle 10.25, esplose una bomba . Furono uccise ottantacinque persone e ferite oltre duecento.

Il 23 novembre 1995, dopo i soliti depistaggi da parte dei servizi segreti , le omissioni, le indagini vere e false, insomma accertato il contesto della strategia della tensione, la Cassazione a sezioni riunite condannò all’ ergastolo, quali esecutori dell'attentato, i neofascisti dei Nar Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro,mentre Licio Gelli( per non dimenticare: tessera n.1816 Silvio Berlusconi), l'ex agente del SISMI Francesco Pazienza e gli ufficiali del servizio segreto militare Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte vennero condannati per le deviazioni politiche delle indagini.

Il 9 giugno 2000 la Corte d'Assise di Bologna emise nuove condanne: nove anni di reclusione per Massimo Carminati estremista di destra, e quattro anni e mezzo per alcuni dirigenti e fiancheggiatori del SISM. Ultimo condannato,con sentenza definitiva, a 30 anni per la strage è stato Luigi Ciavardini, militante prima del Fronte della Gioventù poi del gruppo neo-fascista Terza posizione e diventato terrorista nei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR).Non sono mai stati scoperti i mandanti della strage.

Sonia Zanotti, una delle 200 persone ferite e, fortunatamente salvatasi, organizza da cinque anni la staffetta della memoria. La staffetta parte dall’Italia del Nord, alcuni giorni precedenti la strage, per poi convergere a Bologna. Un gruppo numeroso di podisti arriverà a Bolzano da Bressanone il 29 luglio. Il 30 si ripartirà da Piazza Walther e si proseguirà sino a San Michele all’Adige. Non si richiede preparazione fisica: si può correre anche per pochi metri… e si richiede solo la presenza alla partenza. Inoltre, si può partecipare utilizzando la bici o altri mezzi ecologici. Durante il percorso vi è l’assistenza degli organizzatori.

Per noi,che ogni anno partecipiamo e corriamo,è testimoniare.

Siamo quelli che non vogliono, non devono e non possono dimenticare….

Sakineh Mohammadi Ashtiani

Dear Friends,

Yesterday an Iranian woman, Sakineh Mohammadi Ashtiani, was saved by global protests from being stoned to death.

But she may still be hanged -- and, meanwhile, execution by stoning continues. Right now fifteen more people are on death row awaiting stoning in which victims are buried up to their necks in the ground and then large rocks are thrown at their heads.

The partial reprieve of Sakineh, triggered by the call from her children for international pressure to save her life, has shown that if enough of us come together and voice our horror, we may be able to save her life, and stop stoning once and for all. Sign the urgent petition now and send it onto everyone you know -- let's end this cruel slaughter NOW!

http://www.avaaz.org/en/stop_stoning/?vl

Sakineh was convicted of adultery, like all the other 12 women and one of the men awaiting stoning. But her children and lawyer say she is innocent and that she did not get a fair trial -- they state her confession was forced from her and, speaking only Azerbaijani, she did not understand what was being asked of her in court.

Despite Iran's signing of a UN convention that requires the death penalty only be used for the "most serious crimes" and despite the Iranian Parliament passing a law banning stoning last year, stoning for adultery continues.

Sakineh's lawyer says the Iranian government "is afraid of Iranian public reaction and international attention" to the stoning cases. And after Turkey and Britain's Foreign Ministers spoke out against Sakineh's sentence, it was suspended.

Sakineh's brave children are leading the international campaign to save their mother and stop stoning. Massive international condemnation now could finally stop this sickening punishment. Let's join together today across the world to end this brutality. Sign the petition to save Sakineh and end stoning here:

http://www.avaaz.org/en/stop_stoning/?vl

In hope and determination,

Alice, David, Milena, Ben and the whole Avaaz team


SOURCES:

Iranians still facing death by stoning despite 'reprieve', The Guardian:
http://www.guardian.co.uk/world/2010/jul/08/iran-death-stoning-adultery

Britain condemns planned Iran stoning as 'medieval', AFP:
http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5hjVdkvkzicGeInqw2R10rCKrqs3A


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giovedì 20 maggio 2010

OMAGGIO A PANAHI

OMAGGIO A PANAHI

Io voglio essere la voce dell’Iran




di Daniela Zini

Solo le donne sono in grado di provare vero amore, quell’autentica devozione che le brucia senza alcuna speranza di giungere a realizzarsi?
Un’antica credenza sostiene che Eva, creata dalla costola di Adamo e, quindi, parte di lui, aspiri all’intero indiviso.
L’aspirazione della parte verso l’intero è, forse, più forte di quella dell’intero verso la parte che da lui è separata?
Vengono in mente concezioni gnostiche nelle quali il principio originario si scinde in un elemento celeste, maschile, e uno terreno, femminile; come suggeriscono i testi di Nag Hammadi, il secondo si perde nell’oscurità del mondo, si lascia sedurre abbandonandosi agli aspetti più vili, e, tuttavia, anela al vero Signore, con il quale potrà rivivere la perduta e dissipata felicità dell’unione.
1. L’inquadratura del cerchio
“La caduta dei grandi uomini rende i mediocri e i piccoli importanti. Quando il sole tramonta all’orizzonte, anche il sasso più piccolo fa una grande ombra e si crede qualcosa.”
Victor Hugo
A meno di un anno dalla febbre che si era impadronita di Tehran e aveva invaso le televisioni di tutto il mondo, l’Iran è, di nuovo, scomparso dai nostri schermi.
Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, il governo iraniano di Mahmud Ahmadinejad sembra determinato a soffocare gli ultimi focolai di contestazione. Tra le vittime di questo inasprimento vi sono sicuramente gli oppositori politici, gli studenti, ma anche gli artisti e, tra loro, i cineasti. Ma se i cineasti, rimasti o trattenuti in Iran, subiscono censure, intimidazioni, perfino minacce fisiche, i circuiti clandestini si organizzano. Dal loro esilio, gli altri, continuano a testimoniare, prendendo la parola o brandendo la cinepresa.
La rivista Film, diffusa a Tehran, ha pubblicato, in settembre, un’inchiesta su un decennio di censura in Iran. Le cifre parlano da sole: su 607 film, prodotti e, ufficialmente, riconosciuti dallo Stato, solo 427 hanno beneficiato di un’uscita nazionale. Tra i 180 film censurati, si trovano film di registi di fama mondiale, quali Abbas Kiarostami, Bahman Ghobadi e Mohsen Makhmalbaf.
La nomina al ministero della cultura e della guida islamica di Mohammad Hosseini, un fondamentalista ultra-radicale, ha stroncato sul nascere ogni aspettativa di ammorbidimento del regime.
A meno di conformarsi all’estetica ufficiale del regime, fare del cinema in Iran è più che mai un’attività ad alto rischio!
Lo sa bene Jafar Panahi, arrestato, il primo marzo scorso.
Il suo crimine?
Avere sostenuto Mir Hossein Mussavi, il principale leader dell’opposizione, in risposta alla politica di repressione e di censura, di cui sono stati vittima gli artisti iraniani nei quattro anni del primo mandato del presidente Mahmud Ahmadinejad. Insieme al regista erano arrestati la moglie, Tahereh Saidi, la figlia ventenne Solmaz Panahi, e altre quattordici persone, tra le quali i registi Mohammad Rasulov, Mahnaz Mohammadi e Rokhsareh Ghaem-Maghami, l’aiuto-regista Mehdi Pourmoussa e il cineoperatore Ebrahim Ghaffari (1). Quanto accaduto al cineasta non era un caso isolato: il 12 gennaio, era stata arrestata in condizioni analoghe, insieme al marito, Majid Ghaffari, la fotografa Mehraneh Atashi. È la nuova tattica del regime di Tehran per mettere a tacere i dissidenti: approfittare di una festa per fare irruzione nella loro abitazione e arrestarli con il pretesto di aver violato la legge iraniana, servendo alcol o accettando la presenza di coppie non sposate. Procedendo in tal senso, il regime può dimostrare che gli oppositori conducono una vita dissoluta, non conforme ai principi islamici che i loro leaders, Mir Hossein Mussavi e Mehdi Karubi, pretendono incarnare.
“Jafar Panahi non è stato arrestato perché è un artista o per ragioni politiche. È accusato di alcuni crimini ed è stato arrestato insieme a un’altra persona, in seguito al mandato di un giudice.”,
aveva dichiarato, il 2 marzo, il procuratore generale di Tehran, Abbas Jafari Dolatabadi all’agenzia ISNA.
Non era la prima volta che Panahi era arrestato, dopo le tumultuose elezioni presidenziali del giugno scorso. Il 30 luglio, era stato fermato con la sua famiglia, per aver assistito, nel cimitero Behesht-e Zahra di Tehran, a una cerimonia in commemorazione di Neda Agha Soltan, di cui ricorreva il quarantesimo giorno dalla morte.
Panahi non poteva più lasciare l’Iran, da quando, la scorsa estate, in occasione della XXXIII edizione del Festival dei Film del Mondo di Montreal (27 agosto – 7 settembre 2009), aveva rilasciato interviste coraggiose e pericolose.
“Tutta la popolazione ha manifestato contro l’affronto subito. Non può tollerare queste elezioni truccate. Siamo numerosi, vinceremo. E non crediate che il movimento sia stato indebolito, come alcuni vorrebbero far credere. L’arretramento è simulato, strategico. Si stanno tentando altre strade. Tra un mese, gli studenti si mobiliteranno nelle scuole e nelle università. Ci stiamo organizzando. I giovani costituiscono una forza straordinaria e le loro immagini sulla repressione sono diffuse ovunque.”
Aveva deplorato di aver potuto realizzare solo cinque film, in quindici anni:
“Ho potuto girare solo cinque lungometraggi in quindici anni. Ogni volta, ho dovuto battermi e tentare manovre di aggiramento per poter realizzare i film che volevo fare.”,
poi, si era affrettato a chiarire:
“Potrei realizzare film approvati dalle autorità. Non mi interessa. Con quello che accade in questo momento, la mia posizione è ancora più radicale. Vi è una buona parte del cinema iraniano che si realizza ormai attraverso reti sotterranee. Riuscirò a trovare il modo di girare. Non sono le idee che mancano.”
La sua notorietà lo aveva, a lungo, protetto dal peggio, ma ogni protezione ha i suoi limiti.
“Il vero coraggio è quello di cui danno prova tutti quei manifestanti anonimi, che, nonostante il pericolo, non esitano a manifestare. Quanto a me, la notorietà di cui godo sul piano internazionale mi conferisce una certa immunità.”
Una certa immunità…
“Ho potuto lasciare l’Iran senza problemi per venire qui. Dispongo di un regolare passaporto e le autorità canadesi mi hanno rilasciato un regolare visto. Da noi, non è quando si parte che sorgono i problemi. È quando si torna! Io so che mi interrogheranno al mio ritorno. Ma non voglio tacere. So quello che faccio. Il movimento di opposizione è troppo importante, l’onda di fondo è troppo grande. I giovani, che costituiscono la maggioranza della popolazione, sono ben risoluti a far cambiare le cose. Prima o poi, questo regime cadrà. È inevitabile.”
Panahi era stato toccato dalla solidarietà, testimoniata al suo arrivo a Montreal. La serata di apertura del festival, tutti i membri della giuria avevano ostentato le sciarpe verdi – il colore della contestazione in Iran – che il regista aveva loro distribuito. Dalla comunità internazionale, Panahi attendeva, giustamente, sostegno, solidarietà, simpatia, ma pretendeva che il popolo iraniano fosse l’unico a poter decidere del proprio destino.
“Un intervento militare internazionale sarebbe una catastrofe e non farebbe che peggiorare le cose.”
“Da noi, gli oppositori hanno l’intelligenza di manifestare pacificamente – nonostante il pericolo – perché sanno molto bene che una democrazia non può sbocciare dalla violenza.”
Il regista, formatosi nel documentario prima di divenire uno degli esponenti di punta della Nouvelle Vague del cinema iraniano, crede più che mai alle virtù del cinema.
“Un film non può cambiare il mondo. Ma può aiutare a prendere coscienza, a far riflettere, a sensibilizzare. Dal momento in cui uno spettatore inizia una riflessione all’uscita da un film, il cinema si rivela molto utile.”
In ottobre, a poche ore dalla partenza per il Festival di Mumbai, gli era stato ritirato il passaporto.
“Vi è un prezzo da pagare in Iran per lavorare in modo indipendente dal governo.”
In marzo, il divieto di lasciare il paese gli aveva impedito di recarsi alla Berlinale.
“Siamo sorpresi e profondamente dispiaciuti che a un regista che ha vinto tanti premi internazionali sia stata negata la possibilità di partecipare a questo evento e di parlare della sua visione del cinema.”,
era stato il commento di Dieter Kosslick, direttore del festival.
L’8 marzo, Abbas Kiarostami ha pubblicato una lettera aperta al governo iraniano su un quotidiano di Tehran, per chiedere la liberazione di Jafar Panahi e Mahmud Rasulov (2). Tra il grande regista e Bahman Ghobadi, suo assistente in Il vento ci porterà via, lo scorso autunno, era scoppiata una polemica. Ghobadi (3), che ha dovuto esiliarsi dopo il suo film sulla gioventù underground iraniana, Gatti persiani, rimproverava a Kiarostami di non essere politicamente impegnato e di realizzare film lontani dai problemi dell’Iran (4). L’incidente tra i due cineasti chiarisce la difficoltà degli artisti iraniani di prendere posizione di fronte all'invadenza ideologica del regime attuale.
Quale avvenire per il cinema iraniano?
La ruota gira e per il momento gli artisti attendono, osservano, spiano…
“Non esiste niente di costante come il cambiamento.”
Buddha
Le vere rivoluzioni, quelle che non si limitano a cambiare la forma politica e gli uomini di governo, ma che trasformano le istituzioni e danno luogo ai grandi trasferimenti della proprietà, lavorano a lungo sotterranee prima di scoppiare alla luce del giorno sotto l’impulso di qualche circostanza fortuita. La rivoluzione islamica, che colse alla sprovvista con il suo impeto irresistibile le sue vittime, non meno degli stessi autori e beneficiari, ebbe una lenta preparazione per più di un secolo. Nacque dalla concordanza, che tendeva a farsi di giorno in giorno più profonda, tra la realtà delle cose e le leggi, tra le istituzioni e i costumi, tre la lettera e lo spirito.
Vi sono paesi che muoiono giovani e si arrestano giovani: tutto ciò che segue al loro periodo di vigore riguarda la sopravvivenza e la resurrezione.
L’Iran non si è mai ripreso dalle estenuanti fatiche delle sue avventure imperiali.
E, solo ora, iniziamo a capire ciò che in questo paese commuove e, a volte, sconvolge: in contatto diretto con la realtà, il peso bruto dell’oggetto, l’emozione o la sensazione forte e semplice, antica e sempre nuova, dura o dolce come la scorza o come la polpa di un frutto.
Questa terra così celebrata è meravigliosamente immune da artifici letterari; lo stesso preziosismo di certi suoi poeti non la tocca. Questa terra da cui sono scaturiti tanti capolavori non viene sentita come l’Italia, subito patria privilegiata delle arti, ma vi pulsa la vita come il sangue in un’arteria. Poche regioni sono state più devastate dal favore delle guerre di religione, di razze e di classi; sopportiamo il ricordo di tanti furori inespiabili solo perché qui ci appaiono più nudi, più spontanei e meno ipocriti che altrove, quasi innocenti nel confessare il piacere che prova l’uomo a fare del male all’uomo.
Non vi è paese più dominato da una religione possente che favorisce il più delle volte la bigotteria e l’intolleranza, ma non vi è neppure paese ove si senta di più, sotto il broccato delle devozioni o sotto la pietra dei dogmi, sorgere il fervore umano.
Non vi è paese più legato, ma anche nessuno più libero, da questa rudimentale e suprema libertà fatta di privazione, di povertà, di indifferenza, del gusto di vivere e del disprezzo di morire.
2. La dittatura del cerchio
“Ogni volta che su un autobus un corpo femminile sfiora un corpo maschile una scossa fa vacillare l’edificio della nostra rivoluzione.”
Ruhollah Khomeini
“La società iraniana, in particolare se messa a confronto con questa parte del mondo è in buona misura un mondo maschile. Il raggio del cerchio può essere, in certi casi marginali, più lungo per gli uomini. Il mio film non si propone di essere contro gli uomini, né vuole essere un film femminista. È un film sull'umanità. Uomini e donne fanno parte dell’umanità. Non mostro mai alcun tipo di maltrattamento o di collera maschile verso le donne. A esempio, vediamo le donne che hanno paura della polizia. Può essere vero o non vero. Quando la polizia è vista in campo lungo, ha un aspetto minaccioso. Ma, in campo medio, il poliziotto ha un aspetto gentile.”
Panahi, che fin dal suo primo film, Il palloncino bianco, rivela un autentico sguardo da cineasta, firma con Il cerchio un’opera magistrale.
Aveva dovuto attendere due anni prima di ottenere l’accettazione del progetto da parte delle autorità iraniane, ben coscienti del potenziale sovversivo della sceneggiatura, ma intenzionate a dare un’immagine meno integralista dell’islam e della realtà iraniana agli occhi degli occidentali.
Accettazione ipocrita e a doppio taglio, perché Il cerchio, Leone d’oro al Festival di Venezia, nel 2000, non è mai stato diffuso fino a oggi in Iran.
Come in Fuorigioco, Panahi non teme di scegliere il soggetto politicamente più rischioso: svelare i meccanismi sociali che stabiliscono e assicurano l’oppressione delle donne nella società iraniana contemporanea, una questione particolarmente spinosa, che la nuova donne politica, senza autorizzarlo esplicitamente, permette, forse, di porre.
È innegabile che il cambiamento politico, incarnato da Khatami, i cui poteri restavano, tuttavia, limitati, abbia dovuto svolgere un ruolo importante nella scelta del soggetto.
La libertà come l’acqua si infiltra attraverso percorsi complessi.
Girato rapidamente – per non incorrere nelle ire delle autorità che sorvegliavano le riprese –, il più sovente in esterni, con una cinepresa in spalla e attrici non professioniste dalla recitazione stupefacente, Il cerchio è un film indimenticabile dai ritratti di donna generosi e autentici, che lascia un segno indelebile.
Uno dei pilastri della ricca cinematografia iraniana contemporanea!
“Tutti nel mondo vivono dentro un cerchio. Per problemi o tradizioni economiche, culturali o familiari. Il raggio del cerchio può essere più o meno lungo. Non conta la collocazione geografica, tutti vivono dentro un cerchio. Se il film eserciterà una qualche influenza su qualcuno, spero lo induca a cercare di estendere il raggio.”
3. La quadratura del cerchio
“Gli uomini devono comprendere quello che soffrono le donne. È essenziale per l’umanità.”
Jafar Panahi
“Del vostro mondo mi furono cari
le donne e il profumo,
e il conforto dei miei occhi è nella preghiera.”
Questa massima del profeta Maometto viene spesso citata; com’è possibile, allora, che l’islam sia ritenuto una religione misogina?
È una descrizione impressionante della società iraniana quella offerta da Panahi con Il cerchio, ma i paesi musulmani non hanno l’esclusività di una dominazione maschile, rafforzata dal fondamentalismo religioso.
In Israele, a esempio, se non partorire o compiacere il proprio marito, quali sono i diritti delle donne nella comunità ebraica ortodossa?
È il tema del film di Amos Gitai, Kadosh (Israele, 1999), presentato alla LII edizione del Festival di Cannes.
Qual è, dunque, la realtà dei paesi musulmani?
Qual è la tendenza significativa in questi paesi?
La condizione delle donne musulmane, considerata dagli occidentali come un tutto monolitico, immutabile nel tempo e statico nello spazio, non presenta affatto un volto uniforme ed è legata, come altrove, alle società e alle tradizioni locali.
Non esiste un prototipo univoco della donna musulmana.
Il cinema favorisce la visione di una realtà che, talvolta, smentisce le informazioni occidentali.
Le donne che vivono in Iran si confrontano a codici e costumi diversi da quelli che vigono in Marocco, in Egitto o in Libano. La condizione femminile cambia da un paese all’altro. E, non bisogna neppure dimenticare che, all’interno degli stessi Stati indipendenti, la situazione è molto diversa tra zone rurali e zone urbane, ma anche tra classi sociali.
Dopo Pechino, il cui cardine metodologico è quello di guardare il mondo con occhi di donna, parole come mainstreaming e empowerment sono entrate nel dibattito femminista e, con risultati alterni, anche in quello dei governi per indicare, rispettivamente, la necessità di integrare in tutte le politiche la dimensione di genere e l'obiettivo di rispondere all’esigenza della donna di prendere parte, pienamente, a ogni tipo di sviluppo – economico, sociale, politico, ambientale –, assumendo le responsabilità, anche formali, che a questa partecipazione si coniugano.
La parità di partecipazione di donne e uomini a tutte le fasi dello sviluppo economico e sociale costituisce un prerequisito per la realizzazione della giustizia di genere.
Daniela Zini
Copyright © 2010 ADZ
Note:
(1) La moglie, la figlia e altre dodici persone erano rilasciate quarantotto ore più tardi, Mohammad Rasulov e Mehdi Pourmoussa, il 17 marzo 2009.
(2) “Caro Kiarostami, tu non hai alcun diritto di accusarci di fare un cinema militante solo per tacitare la tua coscienza di moderato silenzioso. In tutti questi anni tu hai realizzato film che non avevano alcun rapporto con la politica e con la nostra società, ed è assolutamente un tuo diritto. (…)
Hai detto: “L’unico posto in cui posso dormire tranquillo la notte è la mia casa…”.
Come fai a dormire la notte, quando tutto il mondo è a conoscenza di quello che sta accadendo ai nostri giovani?
Come riesci tu a dormire, quando la tua gente non riesce a dormire perché preoccupata del suo futuro e di quello dei suoi figli?”
(3) “Diventando adulto, ho sperimentato che non posso cambiare il destino di questa nazione. Da giovane, ovviamente, ero più idealista ed emotivo. Ora sono più pragmatico. Non posso cambiare il risultato, quindi non mi faccio coinvolgere. Il nostro Paese si trova in circostanze molto particolari. Non vedo nessuno per il quale io possa votare. Come posso votare per qualcuno nel quale non ho fiducia? (…)
Ero il capo della giuria. Il signor Ghobadi non aveva nemmeno un voto. Forse pensava che io avessi il potere di dire agli altri membri per chi votare. Ha reagito con rabbia illogica in una lettera aperta che mi ha ferito. Avevo già accettato d’essere capo della giuria in Marocco e sarebbe stato difficile giudicare altri film iraniani. Non farò mai più parte di una giuria. Il problema è che siamo tutti influenzati dal sistema della Repubblica islamica dove una persona ha il potere assoluto. Ghobadi credeva che avessi il potere assoluto come capo della giuria. La gente ha dimenticato che cos’è il processo democratico.”
Corriere della Sera, 24 febbraio 2010
(4) “I don’t quite know to whom I am addressing this letter, but I do know why I’m writing it and I believe that under the circumstances it is both critical and inevitable because two Iranian filmmakers, both of whom are vital to the Iranian wave of independent cinema, have been incarcerated.
As a filmmaker of the same independent cinema, it has been years since I lost hope of ever screening my films in my country. By making my own low-budget and personal films, it has also been years since I lost all hope of receiving any kind of aid or assistance from the Ministry of Guidance and Islamic culture, the custodian of Iranian cinema.
In order to make a living, I have turned to photography and use that income to make short and low-budget films. I don’t even object to their illegal reproduction and distribution because that is my only means of communicating with my own people. For years now I have not even objected to this lack of attention from the ministry and cinematic authorities.
Even if we choose to disregard the fact that for years now, the cinematic administrators of the country, who constitute the main cultural body of the government, have differentiated between their own filmmakers (insiders) and independent filmmakers (outsiders), I am still of the opinion that they are oblivious of Iranian independent cinema. Filmmaking is not a crime. It is our sole means of making a living and thus not a choice, but a vital necessity.
I have found my own solutions to the problem. Independent of the conventional and customary support granted to the cinematic community at large, I make my own short and independent films with hopes of gaining some credit for the people I love and a name for the country I come from. Sometimes the necessity to work calls for the making of films beyond the borders of my country, which is ultimately not out of personal choice or taste.
However, others, like Jafar Panahi, have for years tried to summon official government support, exploring the same frustrating path, only to be confronted with the same closed doors. He too has for years held hopes of obtaining public screenings for his films and receiving official aid and assistance from the relevant governmental bodies. He still believes that based on the merits of his films and the acclaim they have brought the country, he can seek legal solutions to the problem. The Ministry of Guidance and Islamic culture is directly responsible for what is happening to Jafar Panahi and his like. Any wrongdoing on his part, if there is any at all, is a direct result of the mismanagement of officials at the cinematic department of the Ministry of Guidance and it’s inadequate policies which in no way leave any choice for the filmmaker other than to resort to means that jeopardize his situation as a filmmaker. He too makes a living through cinema.
For him too, filmmaking is a vital necessity. He needs to make himself heard and has the right to expect cinematic officials to facilitate the process, rather than become the major obstacles themselves. Perhaps the officials at the ministry can not at present be of help in solving Jafar Panahi’s dilemma, but they need to know that they are and have been responsible all these years, for the dreadful consequences and unpleasant and anti-cultural reflections of such policies in the world media.
I may not be an advocate of Jafar Panahi’s radical and sensational methods but I do know that the cause for his plight is not a result of choice but an inevitable [compulsion].
He is paying for the conduct of officials who have for years closed all doors on him, leaving open small passages and dead end paths.
Jafar Panahi’s problem will eventually be solved but there are numerous young people who have chosen the art of cinema as their means of expression and careers.
This is where the duty of the government and the Ministry of Guidance and Islamic Culture, as the government’s main cultural body, becomes even more critical, for they face a large group of Iranian youth who aim to work independently and away from complicated official procedures and existing prejudices.
Jafar Panahi and Mahmoud Rasoulof are two filmmakers of the Iranian independent cinema, a cinema that for the past quarter of a century has served as an essential cultural element in expanding the name of this country across the globe. They belong to an expanded world culture, and are a part of international cinematic culture. I wish for their immediate release from prison knowing that the impossible is possible. My heartfelt wish is that artists no longer be imprisoned in this country because of their art and that the independent and young Iranian cinema no longer faces obstacles, lack of support, attention and prejudice.
This is your responsibility and the ultimate definition of your existence.”
Abbas Kiarostami, March 9, 2010, Tehran


Martedì 11 Maggio,2010 Ore: 14:08

mercoledì 12 maggio 2010

In risposta ad un editoriale alto adige

Caro Giorgio Delle Donne ,

Non sono d' accordo con te e il tuo articolo offre spunti interessanti per rispondere. Ovviamente alcune delle cose che dici sono vere e giuste ma le usi per un discorso generale poco costruttivo. L' approccio generale del tuo intervento su “Stranieri a Firmian” tradisce, mi spiace dirlo, una superficiale conoscenza del fenomeno migratorio che sfugge ai nostri vecchi schemi , “italiani -tedeschi”. Lo scopo dell' articolo è poi sostanzialmente dimostrare che la sinistra, compresa la mia, non è credibile quando denuncia le tesi xenofobe e pericolose degli “imprenditori politici della paura” perchè starebbe con la cattiva Svp e tacerebbe quindi nei confronti dell' etnocentrismo sudtirolese. Ti sbagli: noi non abbiamo mai taciuto di fronte a scelte politiche culturali e sociali sbagliate. La “nostra” presenza è un piccolo e purtroppo debole anticorpo rispetto a quello che potrebbe essere questa terra se la tenaglia fra etnocentrismo populista sudtirolese e destra leghista e unitalica si chiudesse. Un incubo.

Ho lavorato molti anni a contatto quotidiano con il fenomeno migratorio e mai ho pensato- da buonista- che l' immigrazione sia una passeggiata. Non lo pensano neppure gli immigrati, credimi. Non accusiamo stoltamente le persone di essere razziste ma accusiamo duramente chi fomenta le paure, chi lucra su di esse e per un pugno di voti avvelena il nostro futuro. Non abbiamo mai taciuto di fronte alle discriminazioni per legge fatte dalla nostra Giunta Provinciale quando per rincorrere i Freiheitlichen ha creato limiti e impedimenti agli immigrati nell' accesso alla casa, o quando discrimina le giovani generazioni figli di immigrati nell' accesso alle borse di studio universitarie.

E' evidente che negli ultimi 20 anni c'è stato un tentativo di far gestire alla componente “italiana” la questione migratoria. Ma non tutto deriva da un perfido e geometrico disegno e non tutto per fortuna è già scritto. La dinamica sociale è un po' più complicata e allora è evidente, dal punto di vista sociologico, che gli immigrati si concentrino prevalentemente nelle città, più “italiane”, dove ci sono più attività economiche e più servizi. Così come è evidente che i lavoratori immigrati avendo meno risorse economiche fanno domanda di casa Ipes e non hanno la villa a Gries. Sono d' accordo che in un quartiere come Firmian (o ancor di più Casanova ) ci voglia un grande investimento sociale, che costruire solo case e metterci dentro famiglie senza pensare socialmente è una follia. Questo l' hanno denunciato più volte anche gli operatori sociali. Ma il paragone indotto dalla Lega fra presenza di immigrati e aumento di microcriminalità è basato sul nulla, anzi sulla malafede dolosa. Così anche i dati nazionali dell' ex Ministro Amato che citi sono fuorvianti perchè comprendono anche i reati commessi da irregolari che a loro volta sono colpiti spesso da misure relative solo alla loro condizione giuridica ( per esempio il reato di ingresso clandestino ).

Cose che non c' entrano nulla, virgola, nulla con Bolzano e Firmian.

Per quanto riguarda le scuole è evidente che una maggior presenza di bambini e ragazzi con diversa provenienza possa essere un elemento di fatica per la scuola. Ma non è una condanna. Mia figlia frequenta una scuola pubblica in un quartiere popolare e mi auguro che dall' incontro con tante persone e esperienze possa crescere diversamente da chi, sudtirolesi o “intellighenzia” di sinistra , manda i figli alle scuole private. Servono più risorse per la scuola pubblica piuttosto che finanziare scuole private “ immigrati free”.

In definitiva caro Delle Donne, nessun buonismo, ma realismo. Nessun silenzio, anzi alzare la voce perchè da come gestiamo il fenomeno migratorio dipende il nostro futuro. Nessuna assoluzione verso la Svp e i suoi esponenti etnopopulisti ma non arretrare di un millimetro di fronte alla Lega. E poi anche orgoglio e speranza di riuscire ad affrontare i problemi come comunità bolzanina. Insieme anche a quel 10 % di immigrati, nostri concittadini di Bolzano, ormai stranieri solo nelle nostre teste. Forse il tuo articolo sarebbe stato più credibile, e io mi sarei risparmiato una risposta, se come intellettuale e storico di prestigio fossi intervenuto tu, prima di Margheri, nel denunciare le campagne di odio della Destra leghista italiana. Ma non ho sentito nulla. Peccato.

Luigi Gallo

domenica 7 marzo 2010

Bolzanini, non abbiate paura degli immigrati

Corriere Alto adige 6 marzoCondividi
Oggi alle 10.14

La testimonianza di una studentessa del Bangladesh. «Darei la vita per l’Italia»

Le contraddizioni interetniche della nostra società viste con gli occhi di una ragazza originaria dell’Asia


Io abito in Viale Trento, dove da alcuni giorni hanno appeso dei palloncini e dei cartelli, firmati da un partito politico, con slogan e messaggi dal mio punto di vista non molto corretti. Io, leggendo quei cartelli, ho provato un senso di insicurezza.

Ho avuto la sensazione che questi individui che li hanno creati provassero un odio profondo nei confronti degli extracomunitari, come se avessero da sfogare da tanto tempo, vendicandosi, un terribile sentimento del quale sono responsabili proprio gli immigrati.

Io non me ne intendo proprio di politica e di partiti, perché non seguo questo argomento sui giornali o in TV, e quindi non saprei nemmeno che messaggio vogliano trasmettere i diversi partiti.

Però quei cartelli sembrano abbastanza espliciti, i componenti di quel partito esprimono abbastanza chiaramente le loro idee; o almeno così mi è parso. Oltre che in Viale Trento, intorno per la città se ne vedono altri con scritte di questo tipo: «No alle moschee in Alto Adige» (e sopra la foto di Bin Laden e le Torri Gemelle che crollano); oppure le foto dei Pellerossa che hanno subito l'immigrazione e ora vivono nelle riserve…

Io, ma non solo io, sono del parere che in genere in Italia gli immigrati hanno avuto accoglienza a braccia aperte, su questo non c'è niente da dire. Però purtroppo mi è anche capitato, per qualche attimo, di essere vittima di razzismo verbale, e dev o ammettere che non è una cosa che non lasci un'impronta profonda essere insultati per la propria provenienza, è bruttissimo sentire offendere la propria etnia.

È nefasto generalizzare, attribuendo un'ideologia a un intero gruppo etnico anche se magari il campione di persone su cui si ragiona è troppo piccolo. Certe volte il pregiudizio può veramente raggiungere livelli di pensiero e di linguaggio bassissimi. Non riesco a capire come possa essere così difficile comprendere che non può mai capitare che in un determinato gruppo etnico ci siano solo persone «corrette» o «non corrette». In tutti i popoli ci sono sia persone «buone» che «cattive», ma per fortuna il numero dei «buoni» sarà sempre superiore a quello dei «cattivi».

È molto ingiusto commentare i fatti generalizzando, soprattutto nei confronti delle persone «giuste», e se esistesse in un certo popolo anche una sola persona « buona » , anche allora chi commenta certi fatti generalizzando sbaglia, perché è ingiusto nei confronti di quell'unica persona. Quel giorno mi domandavo se la mia religione fosse tanto violenta da invitare a diventare terroristi . Ma la mia religione invita a soffrire per la foglia di un albero che cade, e come può la stessa religione comandare di trasformarsi in kamikaze?

L'altro giorno una mia amica mi raccontava un episodio successo mesi fa. I musulmani avevano chiesto al Comune un terreno per costruire una moschea e i rappresentanti di quel certo partito avevano deciso che, oltre ad offrire carne suina a tutti nelle vicinanze, avrebbero fatto pascolare e fare i propri bisogni ai maiali sul terreno che i musulmani, avendo deciso di costruirvi una moschea, consideravano sacro, sapendo che si trattava di un enorme insulto per le persone e il mondo islamico. Allora mi sono domandata: ma se ciò fosse veramente accaduto, come sarebbe stato possibile che le gente comune non li correggesse, non facesse niente? È forse così difficile distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è?

Un'altra domanda che io mi sono sempre posta: com'è potuto essere che l'umanità abbia permesso che accadesse quello che è successo durante la Seconda Guerra Mondiale? Non so, forse esagero, ma pur molto insicura mi chiedo: c'è molta differenza fra questi atti di oggi e quelli di settant'anni fa?

Magari quel partito avrà anche ragione, così come tutti coloro che lo sostengono, però secondo me ci sono maniere diverse per prendere certi provvedimenti a proposito di certe situazioni delicate, come per esempio il tema dell'integrazione degli immigrati. Io capisco anche che tutti i partiti, le associazioni e gli addetti alla soluzione di questi problemi molto difficili, che richiedono tanta responsabilità, stanno dando il meglio di loro stessi. Però potrebbe anche essere che certi slogan e messaggi aumentino solo la tensione e la preoccupazione della popolazione, che provochino solo furia nei confronti degli immigrati. Forse esagero, ma i metodi che si stanno utilizzando per trasmettere alla popolazione certe idee non è che siano diversissimi da quelli utilizzati settant'anni fa in Europa.

Io comprendo che è normalissimo provare certi sentimenti nei confronti degli immigrati, è normale che vengano considerati «diversi». È addirittura normale anche avere un po’ paura di fronte ai gruppi di immigrati. È ovvio che sono diversi, certe persone portano su di sé anche degli indicatori, come ad esempio il colore della pelle; si vede, è logico, che sono diversi, non potranno di certo cambiare pelle.

C'è comunque sempre nei loro confronti questo sentimento che li distingue e li mette nella parte di «loro», c'è sempre in mezzo la parola «diversi», per quanto siano o si sentano integrati. È abbastanza normale, quando gli immigrati combinano qualcosa di brutto, precisare nei titoli dei giornali di che nazionalità sono: «Tre cinesi hanno ucciso un bancario», «Due marocchini hanno rubato in un supermercato», «Albanese ubriaco travolge un bambino con la macchina».

È molto importante, secondo me, che gli italiani ricordino che anche l'Italia è stato un paese di emigrazione, dovrebbero cercare di capire cosa vuol dire non essere a casa propria. In Germania, fino a qualche anno fa, all'ingresso di alcuni locali c'era un cartello che diceva «Vietato l'ingresso ai cani e agli italiani», e quindi dovrebbero comprendere quanto siano nefasti certi insulti e che cosa vuol dire non sentirsi a casa propria,

sempre tenendo in considerazione che nessuno abbandona la propria casa senza motivi seri! E credo che gli italiani lo facciano, lo capiscano: sono molto accoglienti.

Io sono fiera di essere nata in Bangladesh, la mia patria è per me il posto più bello del mondo, al quale sono legati tutti i ricordi della mia infanzia, nei quali sono immortalati molti miei preziosissimi e indimenticabili momenti. Però sto vivendo in Italia la mia adolescenza, quello che, si dice, dovrebbe essere il periodo più bello della vita, durante il quale si vivono emozioni e sensazioni intensissime. È proprio in questo Paese che ho stretto le mie prime amicizie, ho cominciato a conoscermi, a sentirmi qualcuno. Sono orgogliosa di poter parlare una lingua così bella e completa come l'italiano; e, pur essendo di altra madrelingua, di poter trasmettere grazie ad essa i miei pensieri, di aver vinto il premio della Società Dante Alighieri per il suo studio.

Sono molto contenta di poter apprendere tante arti di questa nazione.

Questo Paese mi trasmette veramente tanto. Il mio rispetto per questa nazione e questa cultura è forse inspiegabile, ma io cerco di prendere il meglio dalle due culture. Amo questo Paese quanto il mio: se ci fosse bisogno, un giorno, sarei pronta a dare per esso la mia vita.

*** Oggi abbiamo dedicato le due ore di italiano alla discussione di argomenti di attualità, tra cui lo scontro fra immigrati e italiani. È stata una lezione significativa, in quanto il professore ci ha spiegato molto bene alcuni fatti che riguardano gli stranieri. Ho avuto risposta ad alcune domande che non ero mai riuscita a fare, perché le ritenevo inopportune. Ho meditato a lungo ed ho capito molto bene una cosa: è fondamentale in certi casi poter contare sull'appoggio di un'autorità. Così, quando un individuo si trova ad affrontare una persona che lo insulta per la sua origine etnica, potrà sentirsi a proprio agio e far ragionare chi ha di fronte, non provando alcun senso di autodisprezzo per aver tradito la propria patria, per essere fuggito dal suo futuro, per aver abbandonato la propria terra fertile, come invece spesso accade in questi casi. Di solito in queste situazioni la vittima pensa di essere culturalmente deprivata, sfortunata, e queste sensazioni la spingono a non aprir bocca, a non lottare contro le idee errate che regnano nella mente di chi ha di fronte. Con l'appoggio di una qualsiasi autorità, invece, l'individuo riesce ad avere ancora qualche filo di speranza, a rendersi conto che lui è «legale», che ha ragione; che un'autorità ufficiale lo sostiene, e che deve sentire il dovere di difendersi e di fare ragionare chi lo ritiene una nullità.

martedì 2 marzo 2010

Chi ruba la terra e il cibo all' Africa

Repubblica — 26 gennaio 2010

NEL mese di agosto del 2009 il re saudita Abdullah ha festeggiato il primo raccolto di riso realizzato in Etiopia. E al riso seguiranno orzo e grano. Cresciuta in mezzo al deserto come tutti gli Stati del Golfo, l' Arabia Saudita ha scelto di risolvere il problema del cibo accaparrandosi terre coltivabili sull' altra sponda del Mar Rosso, nel Corno d' Africa: in Paesi come l' Etiopia, con 10 milioni di affamati, o come il Sudan, che non riesce a uscire dall' immensa tragedia del Darfur. È un fenomeno nuovo (iniziato circa 15 mesi fa) e ancora poco studiato (anche perché la maggior parte degli accordi è segreta): è il diabolico furto di terra e cibo al continente più affamato e povero del mondo. Milioni di ettari in Etiopia, Ghana, Mali, Sudan e Madagascar sono stati ceduti in concessione per venti, trenta, novant' anni alla Cina, all' India, alla Corea, in cambio di vaghe promesse di investimenti. Seul possiede già 2,3 milioni di ettari, Pechino ne ha comprati 2,1, l' Arabia Saudita 1,6, gli Emirati Arabi 1,3. I protagonisti e anche questa è una novità - sono i governi: da una parte ci sono Paesi che hanno soldi e bisogno di terra. Dall' altra governi poverissimi - e spesso corrotti - che, in cambio di un po' di denaro, tecnologia e qualche infrastruttura, mettono a disposizione senza indugio il bene più prezioso di un continente ancora prevalentemente agricolo: la terra. D' altra parte quasi nessun contadino africano può provare di possedere un terreno. Il diritto formale di proprietà (o di affitto) riguarda dal 2 al 10% delle terre. Nella maggioranza dei casi ci si affida a norme tradizionali, riconosciute localmente, ma non dagli accordi internazionali. E così terre abitate, coltivate e usate come pascolo da generazioni sono considerate inutilizzate. C' è chi si porta da casa anche la manodopera, come la Cina, che ormai dal 2000 sta incentivando l' emigrazione in Africa come soluzione al problema demografico. Nel loro nuovo far west, 800 mila cinesi gestiscono imprese, costruiscono ferrovie, strade, dighe, si appropriano delle materie prime (petrolio, minerali, legno) e piazzano prodotti a buon mercato. Accanto ai governi, ci sono gli investitori privati: dopo la crisi finanziaria, molti hanno iniziato a guardare a beni di investimento più tangibili: il settore in cima alla lista è la terra (cibo e biocarburanti). Non a caso, nell' agosto del 2009, a New York, si è svolta la prima conferenza del commercio mondiale di terre coltivabili... Che cosa succede nelle terre africane quando arrivano gli investitori stranieri? Si passa dall' agricoltura tradizionale - basata sulla diversità, sulle varietà locali, sulle comunità - all' agroindustria: che significa monocolture destinate all' esportazione (riso, soia, olio di palma per biocarburanti...) e ricorso massiccio alla chimica (fertilizzanti e pesticidi). Quando i terreni saranno completamente impoveriti, gli investitori stranieri potranno facilmente spostarsi da un' altra parte. Una formula vecchia, che riporta indietro di cinquant' anni, alla cosiddetta "rivoluzione verde", avviata negli anni Sessanta con i soldi della Fondazione Ford, della Fondazione Rockefeller e della Banca Mondiale per aumentare la produzione di cibo nei Paesi poveri, puntando su tecnologia e monocolture. Le prove del completo fallimento di questa strategia sono incontrovertibili. Un dato su tutti: nel 1970 i sottoalimentati in Africa erano 80 milioni. Dieci anni dopo questo numero è raddoppiato, per raggiungere i 250 milioni di persone nel 2009. Eppure, in nome della sicurezza alimentare, si sta cercando di rilanciarla con il programma Agra (acronimo di "Alliance for a Green Revolution in Africa", ovvero "alleanza per una rivoluzione verde"). Uno dei suoi prodotti simbolo è il riso Nerica ("New Rice for Africa", "nuovo riso per l' Africa"). Un riso che dà alte rese solo se coltivato con tecniche industriali e sostanze chimiche. I semi ( v e n d u t i i n esclusiva da pochissime aziende che fanno soldi a palate) devono essere riacquistati ogni anno. Un sistema i m p r a t i c a b i l e per i piccoli contadini di Paesi come il Mali o la Liberia, che possiedono e si tramandano da generazioni decine di ecotipi tradizionali di riso. Chi c' è dietro questa strategia? I soliti nomi - la F o n d a z i o ne e Rockefeller, la Banca Mondiale, l' Usaid (l' agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati Uniti) - e poi un nuovo, potentissimo protagonista: Bill Gates, che ha deciso di dedicarsi alla solidarietà... Il riso è solo un esempio: Agra sta promuovendo decine di varietà selezionate e brevettate (nuove varietà di cassava, sorgo, mais...); le aziende sementiere nascono come funghi; i contadini ricevono pacchetti di sementi e fertilizzanti (gratis per un anno, scontati per altri tre o quattro anni). E i prodotti tradizionali, che hanno nutrito generazioni di contadini africani, scompaiono. Nel 1960 - all' alba della decolonizzazione - i Paesi africani producevano cibo a sufficienza per il consumo domestico, anzi riuscivano addirittura a esportare. Oggi, invece, sono costretti a importare la maggior parte degli alimenti. A Sandaga, il più grande mercato alimentare nell' Africa occidentale (nel cuore di Dakar) si possono comprare frutta e ortaggi portoghesi, spagnoli, italiani, grecia metà del prezzo degli equivalenti locali. E questo vale per tutti i prodotti: dalle ali di pollo degli allevamenti industriali europei al cotone americano al riso tailandese. L' agro-industria occidentale, grazie a giganteschi sussidi pubblici, piazza le proprie eccedenze sottocosto sui mercati poveri, rovinando i contadini locali. In mare la situazione non è meno grave. Le flotte di Europa, Cina, Giappone e Russia devastano i litorali africani, comprando le licenze di pesca dai governi locali e pescando in modo indiscriminato. E così si disgregano le comunità costiere (in Africa vivono di piccola pesca nove milioni di persone): i pescatori si trasformano in operai per le fabbriche del pesce (gestite da compagnie straniere) e spesso sono costretti a vendere le barche a prezzi stracciati ai passeurs di esseri umani. Su queste piccole barche - inadatte alla navigazione in alto mare - ogni anno muoiono migliaia di disperati in cerca di una vita migliore. Insomma, non possiamo fare altro che sottoscrivere le parole del sociologo Jean Ziegler: «Da una parte si organizza la fame in Africa, dall' altra si criminalizzano i rifugiati della fame». E quelle di Thomas Sankara, rivoluzionario e capo del governo del Burkina Faso per qualche anno, prima di essere ucciso nel 1987, in un agguato organizzato dall' attuale presidente: «Bisogna restituire l' Africa agli africani».

CARLO PETRINI

martedì 26 gennaio 2010

Perché studiare?

“Marzia è una studentessa di una scuola superiore in Afghanistan, in provincia di Ghazni, Comune di Pato”,
Questa sua lettera e stata pubblicata su un mensile locale di tipo culturale.

Perché studiare?

Ma nella vita è un obiettivo importante? Dicono che la vita senza uno scopo non è vita. Il lavoro senza uno scopo non è lavoro. Per questo io da anni sono in conflitto con me stessa. Sono sincera: io non so perché vivo.

Inoltre non so perché devo studiare. Io non sono una ragazza da cui tutti abbiano aspettative e che sia stimolata a studiare. Io e le altre ragazze tante volte ci siamo sentite porre la domanda da amici e persone sconosciute: perché le ragazze devono studiare? In questa situazione io faccio sempre finta di non sentire niente e continuo a studiare. Perché? Forse perché ho paura di diventare una persona ignorante e analfabeta.

Forse perché lo fanno anche i miei coetanei, o forse perché i miei genitori così sono contenti. Sinceramente non lo so. Io che ho 17 anni e sto studiando da 10 anni, ho preso la forte decisione di continuare con gli studi.

Se Dio vuole che io riesca a passare nel mio indirizzo di studio preferito, che è informatica, mi impegnerò per le persone della mia popolazione che hanno bisogno di aiuto. Però non so se questa mia decisione potrà resistere a lungo, quando guardo nella società che mi circonda, perché le persone che io conosco pensano che per una ragazza di 17 o 18 anni sia una vergogna continuare a studiare. Per questo io non dovrei studiare e non dovrei vivere, perché per me studiare è vivere, questo vorrei io ma le persone di cui parlo non mi vogliono così. Alla fine dove andiamo? Quest’anno è per me molto importante, senza dubbio la mia scelta è molto oscillante: o verso il positivo o verso il negativo. Infatti l’anno scorso tanti amici sono riusciti a concludere il loro indirizzo preferito. Anche quest’anno dovrebbe essere così ed io ho cominciato ad essere in ansia nel desiderio di superare gli esami per inserirmi in questo corso. Per questo prego tanto e chiedo l’aiuto di Dio. Da qualche professore io sento che la situazione a Kabul non è adatta per gli studenti. Perché tanti sono poveri e oppressi. Nella frazione di Jaghori tanti hanno preso in affitto alloggi a Kabul per aiutare e loro figli. Purtroppo questa possibilità non c’è ancora nel nostra paese “Pato”, nemmeno per i maschi, tanto meno per le femmine. Io sento che la maggior parte delle ragazze hanno difficoltà economiche e vorrebbero guadagnare un po’ di denaro per sostenere le loro famiglie, aiutando nello studio i piu’ piccoli. Io penso a loro e dico: - Dio mio, senza di te loro non hanno nessuno. Forse , se non le aiuti, il loro impegno difficile di 12 anni di studio va in fumo. A causa della loro povertà non possono sostenere l’esame di ammissione. Anche quando mi trovo in classe, penso sempre a questo problema finchè non mi chiama per nome il mio professore che mi aiuta a uscire da questo groviglio di pensieri, così mi concentro nello studio. Un giorno un nostro professore rispondeva a delle nostre domande sulla situazione delle studentesse, in particolare se anche noi riusciamo ad arrivare all’ Università. Sorridendo lui ha risposto affermativamente, ricordandoci il primo giorno in cui siamo arrivate in questa scuola, quando ci è stato detto che avevamo già fatto un cammino e, se eravamo arrivate fin qui, saremmo arrivate anche oltre. Da questo momento in poi il mio pensiero è piu’ sciolto. Continuo a pensare al mio indirizzo di informatica, penso alla bellezza di questo ramo. Ogni giorno vorrei mostrare il mio interesse per l’informatica anche alle persone che mi scoraggiavano dal continuare gli studi. Intraprendendo questa strada potrò far cambiare idea a queste persone. Da anni noi abbiamo avuto tante difficoltà nella vita. Non faremo fatica ad affrontare il resto, dobbiamo migliorare.



“Marzia è una studentessa di una scuola superiore in Afghanistan, in provincia di Ghazni, Comune di Pato”,

Questa sua lettera e stata pubblicata su un mensile locale di tipo culturale, l’ho trovata sul sito” http://www.patomagazin.blogfa.com/”

Traduzione da parte di Alidad Shiri.
Gli aiuti per sostenere la popolazione dell’Afghanistan, che vive in povertà da molti decenni per la guerra, devono arrivare direttamente a persone che vivono sul posto, perché quelli governativi o di Organizzazioni Europee sono filtrati dalle mafie locali.

Ci si può rivolgere eventualmente al direttore di questo mensile su cui è pubblicata la lettera della studentessa: 0093799724247 farhad_ekhlasi@yahoo.com
Anche l' Associazione Culturale degli Afghani in Italia sostiene scuole, Ospedali e progetti Culturali in Afghanistan

Cordiali saluti
Per AFF e ANAFI

Il Vicepresidente

Alidad Shiri